lunedì 7 novembre 2016

Tina Anselmi

Tina Anselmi (1927-2016) è stata la prima donna che abbia ricoperto un incarico di ministra della Repubblica Italiana, Ministra del Lavoro e della Previdenza Sociale nel governo Andreotti (1976-1978).
Durante il suo incarico l’Italia, recependo le Direttive europee che avevano comportato un enorme cambiamento nelle politiche a favore delle lavoratrici,
si è dotata di una delle prime leggi sulla parità uomo donna in materia di lavoro. Con la  legge n. 903 del 1977 (attuativa della direttiva CEE 9.2.1976) si abbandonava la tradizionale impostazione protettiva-assistenziale a favore di una costruzione giuridica paritaria resa possibile dalla riforma del diritto di famiglia del 1975.
La legge, infatti, prescriveva la parità di trattamento nell’accesso al lavoro e nello svolgimento del rapporto di lavoro (parità nella retribuzione, nell’attribuzione delle qualifiche, nella cessazione del rapporto di lavoro), la riduzione del costo del lavoro femminile, l’adeguamento della disciplina giuridica del lavoro femminile alla nuova struttura della famiglia prevista dal diritto di famiglia riformato.
Giovanissima, Tina era stata staffetta partigiana, poi insegnante, sindacalista, deputata della DC per sei legislature (1968-1992), ministra del Lavoro e poi ministra della Sanità (1978-1979).
Il suo nome resta però legato alla Commissione parlamentare di inchiesta sulla Loggia massonica P2 di cui fu la Presidente (1981-1985). Tutti i giornali, il giorno in cui è morta, hanno dato ampio risalto proprio a questo punto della sua biografia. Il suo lavoro è condensato nei 120 volumi degli Atti della Commissione. Ricordo di avere letto, tanti anni fa, l’Introduzione agli Atti firmata da Tina Anselmi e di essere rimasta stupefatta dalla assoluta incapacità di questa politica veneta, cattolica, di capire e interpretare quello che aveva studiato per anni.
Credo proprio che chi la designò a quell’incarico sapeva bene quello che faceva. Estranea a certi giochi della politica, rigorosa ma rigida, non aveva gli strumenti per saper interpretare il senso reale di quello che venne a sapere.
Cito le parole di Massimo Teodori, che della Commissione P2 fece parte e che da laico ne ha data la spiegazione più condivisibile: “Fu incaricata per volere della sinistra Dc, immersa fino al collo nella vicenda, d’intesa con il Pci, che voleva tornare al compromesso storico. Il loro punto di riferimento era Giulio Andreotti, che però aleggiava in ogni carta della P2. La sua tesi fu funzionale a salvare i partiti. Lei sosteneva che l’obiettivo di Licio Gelli fosse il colpo di Stato contro i partiti, guidato dagli americani, che fin dallo sbarco in Sicilia avevano ricostituito la massoneria. Io credo invece che fosse un’agenzia al servizio dei partiti, usata per accrescerne il potere” (CdS 2 novembre 2016).
Di sicuro sappiamo che, concluso il lavoro che le era stato affidato, fu messa da parte. Non serviva più!

Negli anni Novanta le mie lezioni universitarie sono state seguite per un periodo da studenti di CL, molto vicini a Andreotti, che poi mi proposero tesi sui rapporti tra massoneria inglese e italiana. Non conoscevano l’inglese e li dirottai su altri argomenti, ma trovai quanto meno singolare la richiesta!
Anna Maria Isastia

sabato 5 novembre 2016

Hillary Clinton e il pregiudizio di genere

Il 5 novembre 2008 Barack Obama diventava presidente degli Stati Uniti d’America. Alla Casa Bianca entrava il primo afroamericano. La campagna elettorale americana fu segnata, tra i democratici, dallo scontro tra un nero e una donna e non credo di sbagliare se ritengo che fu proprio il fatto di avere come antagonista una donna ad avere avvantaggiato Obama in un paese che è ancora razzista, come la storia degli ultimi otto anni ci ha dimostrato.
Otto anni dopo il copione si sta riproponendo. A una donna esperta e competente, seria e grintosa, si contrappone un uomo pieno di sé, ma vuoto di competenze, che incarna lo stereotipo del maschilista. Se a Trump il partito democratico avesse messo di fronte un qualunque politico uomo, anche incolore, ma affidabile, nessuno avrebbe dubbi sul risultato del voto. Sono i repubblicani per primi a temere la sua vittoria. Ma a Trump il destino ha contrapposto una donna e dunque ci sono serie probabilità che alla fine sia lui a prevalere, un non politico sessista e razzista che ha contro quasi tutta la stampa, la classe politica e i media.
A Hillary per vincere non basta essere perfetta: seria ma sorridente e simpatica, assertiva ma con voce flautata, competente e con alle spalle un curriculum eccellente. Ogni volta che sta per prevalere le arriva addosso una cannonata, con un tempismo perfetto. Alla gente è antipatica proprio perché è brava, cosa che non ho mai sentito dire di un uomo. Tutte quelle che in un uomo sono doti da apprezzare, in una donna, ancora oggi, diventano difetti da criticare.
Il doppio standard è evidente. Trump deve solo evitare di dire cose troppo stupide per essere giudicato adatto come presidente e anche se dice e fa cose improponibili, in fondo alla gente piace perché gli sente ripetere quei famosi discorsi da bar che sembra piacciano ancora a tanti uomini. Il suo essere un vecchio maschio sciovinista non turba gli elettori americani.
Sulla graticola invece è messa Hillary, per mille motivi, ma in fondo per un solo motivo: è una donna che ambisce ad occupare il posto di un uomo.

Anna Maria Isastia

lunedì 19 settembre 2016

Rio e le Paralimpiadi

Devo ringraziare la stampa e le televisioni che hanno dato spazio alle atlete e agli atleti paralimpici. I loro sorrisi, la loro allegria, il loro entusiasmo hanno contagiato tutti. Non li ha fermati la carrozzella, né le protesi, né la cecità. La loro gioia di esserci è stata una iniezione di vitalità per tutti. Ci hanno insegnato il coraggio. Qualcuno ha trovato ‘inopportuno’ e deprimente lo spettacolo della disabilità mostrato dagli schermi. Mi sono sentita a disagio per queste persone che non hanno colto l’importanza di quello che è passato davanti agli occhi di tante persone ‘normodotate’.  Siamo abituati a distogliere educatamente lo sguardo quando incrociamo una persona in carrozzella, per evitare situazioni imbarazzanti. Il mito della eterna giovinezza e dell’obbligo alla bellezza fisica e alla salute ha contagiato tutti da troppo tempo. Poi l’impatto improvviso con dodici giorni di gare di sport e di amicizia. La scoperta che si può tornare a vivere normalmente, anzi ad eccellere,  anche dopo una grave malattia o un incidente devastante: Martina Caironi, Vittorio Podestà, Paolo Cecchetto, Beatrice Vio, Alex Zanardi, Luca Mazzone, Francesco Bocciardo, Federico Morlacchi, Assunta Legnante hanno vinto medaglie d’oro malgrado le loro gravi disabilità. Storie personali che possono cambiare una piccola porzione di mondo, che possono cambiare la Storia. Martina Caironi che con una gamba in fibra di carbonio stravince i 100 metri, Alex Zanardi privo di gambe, che vince nel ciclismo, Federico Morlacchi che ha dominato nel nuoto, la giovanissima Bebe Vio, con quattro arti amputati per una meningite, che ride sul podio del fioretto e si considera “una ragazza fortunata”. Sono esempi per noi, sono esempi per i giovani pavidi di fronte a prove modeste. Grazie a loro diventa più facile capire e condividere l’art. 26 della Carta dei diritti fondamentali Ue: “L’Ue riconosce e rispetta il diritto dei disabili di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità”.

Anna Maria Isastia

domenica 17 luglio 2016

Future Wars. Storia della Distopia Militare

Il video di SISM - Società Italiana di Storia Militare con il mio intervento durante la presentazione del volume Sism "Future Wars. Storia della Distopia Militare".
Camera dei Deputati, 8 luglio 2016

venerdì 17 giugno 2016

MIGRANTE/EMIGRANTE

La parola migrante si è silenziosamente sostituita alla parola emigrante. Quando e chi lo ha deciso?
Secondo l’Accademia della Crusca: “Migrante sembra adattarsi meglio alla condizione maggiormente diffusa oggi di chi transita da un Paese all’altro alla ricerca di una stabilizzazione: nei molti transiti, questo è il rischio maggiore, si può perdere il legame con il paese d’origine senza acquisirne un altro altrettanto forte dal punto di vista identitario con il Paese d’arrivo”.
I numeri sono impressionanti. Con 60 milioni di sfollati, richiedenti asilo e rifugiati, il 2015 sarà ricordato per l’inadeguatezza dei governi e la loro incapacità a gestire una situazione che non può più essere definita emergenziale.
Dalla fine della seconda guerra mondiale non si erano mai visti numeri così alti e siccome il fenomeno è in costante ascesa parlare ancora di ‘emergenza umanitaria’ è veramente disarmante e riduttivo. Di fronte a movimenti di massa, in tutto il mondo, di tali dimensioni, è necessario un cambio di passo a livello globale perché nessuno Stato può pensare di gestire la situazione in maniera autarchica.
Nel  2015 sono stati circa 163.000 i rifugiati che hanno chiesto asilo in Svezia, la percentuale maggiore tra i paesi europei rispetto al numero di abitanti. Ma con l’arrivo di 10.000 migranti a settimana a novembre, in gran parte passati per la Danimarca, il governo svedese ha annunciato la restrizione dei controlli. La Svezia ha reintrodotto i controlli alla frontiera con la Danimarca, che a sua volta li ha riavviati nei riguardi della Germania. Due misure messe in campo per tentare di arginare il flusso di richiedenti asilo. A Calais sono stati rafforzati i controlli tra Francia e Gran Bretagna. In modo analogo si sono mossi i paesi confinanti con la Grecia. Ungheria, Austria, Slovenia, Macedonia hanno alzato muri e messo filo spinato alle frontiere per fermare il flusso via terra che ha portato enormi numeri di migranti dal medio oriente verso la Germania e i paesi del nord Europa. Infine l’Austria ha ricostituito anche controlli alla frontiera italiana del Brennero.
L’OIM (organizzazione mondiale per le migrazioni) informa che nel 2015 sono stati oltre un milione (1.084.625) i migranti, arrivati in Europa per terra e per mare e questo flusso prosegue senza sosta.
Tanti, troppi minori arrivano soli. Da gennaio 2016 sono arrivati in Italia 7000 minorenni non accompagnati. Siamo tutti consapevoli che sono a rischio abusi. Molti scompaiono e non se ne sa più nulla. Sappiamo invece che, secondo i dati Unicef, 2809 piccoli sono morti in mare durante la traversata.
Solo adesso, siamo a giugno 2016, l’Unione Europea sta cercando di elaborare un piano che ha soprattutto il merito di affrontare finalmente il problema nel modo giusto. Non più una posizione passiva verso un fenomeno di ridistribuzione globale di esseri umani, non più spettatori attoniti di un dramma di proporzioni bibliche, ma attori consapevoli. Il piano UE per i migranti è di difficile elaborazione e di più difficile attuazione, ma nessuno può ancora pensare di ignorare il problema o di risolverlo chiudendo le frontiere e/o mettendo il filo spinato.
Sono mesi che si ripete che «Schengen è a rischio. La libertà di movimento è un principio importante, uno dei risultati più grandi dell’Unione europea negli ultimi anni, ma è in pericolo a causa del flusso di profughi».
Gli studiosi sanno che l’uomo è sempre stato in movimento, migrando da una regione all’altra e da un continente all’altro. Non si era però mai dato un fenomeno così travolgente che vede contemporaneamente in movimento milioni di persone in tutti i continenti.
La spinta demografica è una motivazione valida in passato e a maggior ragione oggi. Per gli stessi motivi ci si sposta da luoghi poveri di risorse verso una maggiore ricchezza di risorse. Nell’antichità le popolazioni si spostavano verso nuove regioni dove praticare la caccia e la raccolta, ora i poveri si spostano dove credono di trovare risorse per la sopravvivenza e una migliore qualità della vita. La popolazione mondiale non ha mai raggiunto le cifre di oggi e questo ingigantisce i numeri di una situazione che appare difficilmente controllabile. Anche la rapidità degli spostamenti ha modificato la percezione del fenomeno.
Lo studioso Giorgio Manzi ritiene però che “il fenomeno attuale segna un’inversione di tendenza nei rapporti tra le parti in gioco. Nella preistoria a diffondersi erano i vincenti – quelli più adatti, quelli ecologicamente e demograficamente di successo – oggi invece a diffondersi sono i poveri della terra, che dalla loro hanno solo la sovrappopolazione e la disperazione. In questo vedo un aspetto paradossalmente positivo. Se in passato l’effetto di una diffusione dei più ‘forti’ finiva per comportare la marginalizzazione delle popolazioni che incontravano, oggi a governare la scena ci sono, ci devono essere da parte nostra altre parole-chiave: accoglienza e integrazione”.

Anna Maria Isastia 

domenica 12 giugno 2016

La feroce violenza sulle donne e l’appello agli uomini

Chissà se qualche uomo ha letto l’articolo di fondo del Corriere della sera di sabato 11 giugno 2016 “Femminicidi. Un appello agli uomini”. E’ firmato da un uomo  Paolo Di Stefano ed è diretto agli uomini.
Non è una domanda retorica. Agli uomini non interessano le paginate intere che i quotidiani dedicano alle tante donne vittime di femminicidi, di aggressioni, di persecuzioni. “Sono cose di donne” ripetono e nello stesso modo ignorano i convegni e gli incontri dedicati ad occuparsi di questi argomenti. Gli specialisti e gli studiosi si trovano regolarmente a parlare a platee composte quasi esclusivamente da donne, non giovani, che conoscono benissimo il tema perché lo affrontano da decenni.
La mattanza degli ultimi giorni: giovani donne strangolate e bruciate, uccise e buttate in discarica, eliminate in ogni modo, sta facendo riflettere ancora una volta. La novità è data dal fatto che una testimonial d’eccezione come Lucia Annibali, che ha avuto il volto sfregiato dall’acido, per la rivalsa di un ex, ha lanciato un appello agli uomini, perché “la rivoluzione, qui e oggi, la possono fare solo gli uomini per gli uomini, affrontando un percorso di liberazione simile a quello che ha portato le donne all’emancipazione”.
Lucia Annibali ha trovato l’attenzione indispensabile di chi può concretamente contribuire a modificare la situazione, Maria Elena Boschi, che da un mese ha avuto dal governo la delega alle Pari Opportunità. Ed è la ministra a dichiarare:”tramite il dipartimento [delle Pari opportunità] ho chiesto che vengano completate le designazioni per la cabina di regia interministeriale e per l’osservatorio, previsti dal Piano antiviolenza. E vorrei anche chiamare alcuni consulenti per una mia task force”.
Maria Elena Boschi chiede di incentivare nelle scuole una vera sensibilizzazione verso il rispetto delle diversità di genere e contro la violenza sulle donne e dice che a breve usciranno le linee guida nazionali del Miur, come prevede la ‘buona scuola’.
Il Soroptimist può essere soddisfatto di avere anticipato questa linea di intervento, firmando con il Miur un protocollo d’intesa (2014) per corsi nazionali di formazione per formatori "Prevenzione della violenza contro le donne: percorsi di formazione-educazione al rispetto delle differenze”.
Per gli stessi motivi i club Soroptimist possono essere orgogliosi di avere aderito al programma del Codice rosa bianca ideato dalla dottoressa Vittoria Doretti che, speriamo verrà chiamata a far parte della nuova task force.

L’articolo di fondo sul Corriere della sera forse segnala un reale cambio di passo. Scrive Di Stefano: “Che cosa pensiamo della normalità che prevede dolcemente per la donna (anche in una famiglia di professionisti, non è questione di livello sociale) il sovraccarico quotidiano maggiore di impegni, ventisette ore al giorno di attività, tra lavoro fuori casa, accudimento figli e genitori, gestione economia domestica, spesa, pulizie, cena eccetera. Non c’è bisogno di essere un maschio demente e feroce né di avere un’idea padronale del rapporto tra i sessi per offendere una donna: è quel che dovremmo comunicare, da padri, ai nostri figli maschi. Ma prima dovremmo esserne impregnati noi, di questo senso di libertà. Quanti bambini e adolescenti nativi digitali, tecnologicamente all’avanguardia, ritengono — come pensavano i nostri bisnonni e nonni migliori — di essere paternalisticamente destinati, per missione genetica, a proteggere la sorella, minore o maggiore che sia: perché comunque la donna andrebbe protetta come si fa con le specie floreali e faunistiche più fragili. Dunque, ricollocando, anche a fin di bene, la questione femminile in una dinamica di potere (il più forte e il più debole...) e non in una visione di autentica eguaglianza e libertà. Cari uomini, non c’è bisogno di essere feroci — come lo sono gli uomini che uccidono le donne considerandole loro esclusiva proprietà e che con facilità allontaniamo da noi — per essere discriminanti. Non c’è bisogno di disprezzare il delitto passionale per commettere piccoli delitti giornalieri contro l’uguaglianza. Non c’è bisogno di odiare la libertà della propria compagna, fidanzata, moglie, sorella per lederla. Non c’è bisogno di essere padri o fratelli di vittime per accogliere l’appello di Lucia Annibali e far sentire la nostra voce”.
Anna Maria Isastia

giovedì 2 giugno 2016

Il 2 giugno 1946 delle donne

PARITÀ E RAPPRESENTANZE
Partimmo dal voto / 1
In diretta dalla storia
Tra il 1944 e il 1946 Noi Donne sostiene il suffragio universale e combatte le resistenze dei politici (maschi). Alcuni flash sul dibattito del tempo
Che senso ha votare oggi? Una domanda che tanti e tante si pongono in un momento di crisi delle democrazie a livello globale. Eppure questo 2016 è un anno speciale per il voto in Italia: proprio settanta anni fa le donne conquistavano, non senza fatica, il diritto a una piena cittadinanza. Sebbene sia in Italia che in altri paesi già dalla fine dell’Ottocento fossero iniziate le lotte per il suffragio femminile, nel nostro paese fu solo con le elezioni amministrative, nel marzo del 1946, e poi con le votazioni del 2 giugno che le donne mossero i primi passi nelle istituzioni. Le pagine di Noi Donne, che come rivista di politica femminile era nata ufficialmente già due anni prima, nel luglio del 1944, rappresentano una fonte preziosa per ricostruire le fasi che precedettero le prime votazioni cui presero parte anche le donne. Riflessioni lucide e coinvolgenti, quelle che si trovano sfogliando l’archivio, come le parole Marisa Rodano che nel gennaio del 1946 sul numero 11 di Noi Donne scriveva: “Il Consiglio dei Ministri ha approvato la legge elettorale amministrativa e ha approvata anche la data dei comizi elettorali che avranno luogo ai primi di marzo.[…] Vi sono alcuni, cioè, che hanno uno strano ragionamento; essi dicono: ‘Le donne italiane non hanno mai votato, quindi in gran parte non si cureranno di votare. Bisogna che la legge stabilisca che votare è un obbligo per tutti i cittadini e che chi non vota dovrà pagare una forte multa’. Che ve ne pare, di questo discorso, care amiche dell’UDI? […] Voi risponderete sicuramente che questa teoria che il voto sia un obbligo è molto nuova: quando le donne lottavano per conquistarsi il diritto di votare, non è mai venuto in mente a nessuno di dire che il voto era un obbligo. Come mai a questi signori viene in mente solo ora che il voto non è un diritto, ma un obbligo?”. E aggiungeva: “E se poi ci fosse qualche donna che, malgrado tutto, non avrà compreso l’importanza e il dovere morale (dovere verso se stessa, la sua famiglia, i suoi figli) di andare a votare e si asterrà dal voto, noi domandiamo ai sostenitori del voto obbligatorio: se questa donna fosse obbligata per legge a votare, quale contributo potrebbe dare? Se non è nemmeno arrivata a comprendere l’importanza di andare a votare, come saprà scegliere con giudizio per chi votare? Voi dite che tutti i cittadini devono contribuire a ricostruire il paese. Ma per far questo non basta andare a gettare una scheda in un’urna senza sapere quello che si fa. Per far questo bisogna essere coscienti e coscienti si diventa nella libertà!”.
Sebbene ci fossero stati uomini, tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900, che sostenevano il voto alle donne, durante il ventennio fascista, in cui le donne venivano educate sin dai banchi di scuola ad essere le regine della casa e nulla più, e durante i tragici anni della Seconda guerra mondiale che seguirono, alle donne italiane fu negata una piena cittadinanza. Per questo la battaglia per il diritto di voto assunse, non appena furono deposte le armi, assoluta centralità. Rosetta Longo nel febbraio del 1946 la descrive così: “Una fondamentale conquista per le donne italiane è stata quella del voto. […] Ben a lungo dunque gli uomini hanno difeso questo privilegio che sanciva la loro superiorità riservandosi la qualifica di cittadini. Lo hanno difeso armati della forza della tradizione: una tradizione che risaliva ai lontani tempi in cui il diritto di partecipazione alla vita pubblica era connesso al dovere di impugnare le armi. […] Ben lontani quei tempi e ben diversi. Ora ogni guerra richiede la partecipazione di tutti, uomini e donne. Non si tratta soltanto di combattere – e del resto anche le donne hanno combattuto - ma di sopportare e resistere ad ogni genere di sofferenza e di privazione. […] Quindi, se pur ci teniamo a rispettare la vecchia tradizione, possiamo ben dire di avere conquistato il diritto di essere considerate cittadini, parte integrante dello Stato. Ma nel diritto ottenuto noi non vediamo solo il riconoscimento dovuto alle combattenti, alle partigiane, alle martiri, alle eroine; noi vediamo un riconoscimento, a cui teniamo assai di più: quello dell’opera insostituibile della donna nella famiglia e nello stato, del suo contributo di lavoro fecondo e indispensabile, della sua intima energia, fonte di speranza e di forza”. Non solo un riconoscimento alle deportate, fucilate e arrestate, alle oltre 40mila staffette e partigiane che combatterono per la Liberazione e si organizzarono nei Gruppi di Difesa della Donna, conquistandosi un ruolo da protagoniste nella Storia, bensì un diritto per tutte le donne alla partecipazione politica a partire dal quel contributo enorme e invisibile che le donne davano (e danno) alla società attraverso il lavoro di cura. Pochi mesi dopo le donne di Novara scrivono al giornale tornando proprio sull’importanza della politica – e quindi della scelta dei candidati da votare - nel determinare aspetti concreti della vita di una donna. “La donna ha votato e voterà perché vuole un domani migliore, un domani in cui la maternità sia rispettata, in cui l’infanzia, la fanciullezza, la gioventù, la vecchiaia siano tutelate con eque previdenze, in cui l’intelligenza dei bambini dei lavoratori sia riconosciuta e le porte dell’Università siano aperte anche ad essi, in cui la lavoratrice sia considerata alla stessa stregua del lavoratore”.

Nonostante i leader dei due maggiori partiti politici - il PCI e la DC - intuirono da subito la convenienza politica dell’estensione del voto alle donne, tale conquista non fu scontata. In un primo momento il diritto di voto nacque monco, poiché il decreto del 1945 non contemplava anche la possibilità che le donne venissero elette (elettorato attivo) ma solo che fossero elettrici (elettorato passivo). Tanti uomini politici di fatto erano contrari al suffragio universale e consideravano le potenziali elettrici ignoranti, inadeguate, non meritevoli di esercitare una piena cittadinanza. Ma ormai non si poteva tornare indietro. L’argine dei conservatorismi dovette cedere all’impeto vitale delle donne, che votarono per la prima volta alle elezioni amministrative nella primavera del 1946. “Le elezioni di domenica 10 marzo hanno dato ragione a noi e non ai pessimisti. Molte donne per la prima volta hanno assistito ad una riunione pubblica, ad un comizio, e hanno sentito parlare di schede, di urne e di candidati. La democrazia ha conquistato un grande e forte alleato: la donna” scrive Rita Montagnana su Noi Donne all’indomani di quel primo appuntamento elettorale. Il 2 giugno 1946, anche grazie al voto femminile, l’Italia deciderà per la Repubblica e ventuno donne, le cosiddette Madri Costituenti, entreranno nell’Assemblea che scriverà il testo della nostra splendida Carta costituzionale.

| 01 Giugno 2016  ND Noi Donne

lunedì 16 maggio 2016

Immagini dal Salone del Libro di Torino

La presentazione de 
"Le donne nel primo conflitto mondiale"
Atti del Congresso di Studi Storici Internazionali

Salone del Libro di Torino 
14 maggio 2016








giovedì 12 maggio 2016

A Torino, al Salone del Libro, presentazione de “La Grande Guerra delle Italiane” (14 maggio 2016)





L’Ufficio storico dello Stato Maggiore Difesa ha pubblicato gli Atti del Convegno “Le donne nel primo conflitto mondiale, dalle linee avanzate al fronte interno. La Grande Guerra delle Italiane”.
Affrontare gli anni della Prima Guerra Mondiale con gli occhi delle donne, rendendosi conto che la guerra non l’hanno fatta solo i soldati in prima linea, ma anche quanti erano nelle retrovie. E’ questa la vera novità di questo Centenario, che il convegno intende ricordare attraverso prospettive trascurate in passato, sottaciute o ignorate.
Ed è di particolare importanza che sia l’USSMD a voler cogliere questa opportunità di approfondimento finora circoscritta ad un nucleo di storici che hanno messo in luce come questa guerra rappresenti uno snodo importante anche nella storia delle donne, perché ha accelerato processi di modernizzazione già emersi  tra la fine dell’ ‘800 e l’inizio del ‘900, affermando un protagonismo femminile di straordinaria rilevanza.
E’ impressionante la mobilitazione femminile per sostenere lo sforzo bellico.
 Le donne sono massicciamente impegnate nel cosiddetto “fronte interno”,  nelle fabbriche e nelle officine, nei campi e nei servizi, con una rottura dei ruoli tradizionali improvvisa e ricca di conseguenze.  Il contributo femminile alla guerra si configura anche come opera di assistenza civile. I Comitati nascono ancora prima che l’Italia entri in guerra e vengono sollecitati dall’appello alla Nazione del 29 maggio 1915 del presidente del Consiglio Antonio Salandra. Nelle grandi città come nei piccoli centri, l’organizzazione femminile precede spesso quella maschile e poi finisce per fungere da modello delle opere di assistenza di guerra.
Il convegno intende evidenziare l’ampiezza e l’importanza dell’apporto delle donne allo sforzo bellico della nazione, restituendo loro una memoria troppo a lungo rimossa. Al fronte ricordiamo le portatrici carniche, le crocerossine, le dottoresse che per la prima volta possono operare negli ospedali. Accanto a loro le donne friulane e venete che la guerra l’hanno subita per motivi geografici, vivendo bombardamenti e distruzioni, l’evacuazione forzata di paesi e città, subendo gli stupri di guerra con tutte le loro drammatiche conseguenze. Sono state migliaia le profughe che hanno raggiunto luoghi molto lontani, anche dell'Italia centrale e meridionale, costrette a prendere decisioni che hanno cambiato la loro vita e quella di figli e parenti e a rendersi economicamente indipendenti in contesti totalmente estranei.
Al convegno hanno partecipato anche studiosi stranieri, giovani ricercatori e storici non accademici. Studiare la Grande Guerra in un’ottica di genere permette di capire il senso delle trasformazioni della società italiana nei decenni successivi, se è vero che l’unica rivoluzione riuscita del XX secolo è stata quella femminile.





martedì 19 aprile 2016

Considerazioni sulle fedi religiose e la cultura del rispetto

Intervento di Anna Maria Isastia al Seminario di Siracusa organizzato da Minerva e Maeci il 15-16 aprile 2016 per discutere su “Crisi in Libia: le donne libiche per un network di dialogo e di pace”.




 


Nei paesi di cultura e tradizioni cattoliche si stanno moltiplicando le riflessioni sulle religioni.  All’Università ‘Sapienza’ di Roma l’ 8-9 aprile 2016 si è tenuto un convegno sulla storia delle religioni con oltre settantacinque relatori. Negli stessi giorni è uscito un fascicolo della rivista “Il Mulino” diretta da Michele Salvati, dedicata ad una riflessione sulla difficoltà di separare Stato e Chiesa e, a maggior ragione, politica e religione.  E’  un moltiplicarsi di iniziative che denotano il desiderio e la necessità di capire e riflettere su cosa sta succedendo nel mondo, oggi.
Sotto i nostri occhi si sta verificando una importante inversione di rotta rispetto ad un faticoso percorso di secolarizzazione, avviato  in Italia oltre 150 anni fa e proseguito nel tempo con grandi difficoltà.
Nei paesi europei di cultura cattolica il legame tra trono e altare, cioè tra potere politico e potere religioso è stato per secoli molto stretto. Il potere religioso controllava anche il potere politico, perché il re o l’imperatore erano tali “per grazia di Dio” e il Pontefice rappresentava Dio in terra e aveva il potere di sciogliere e di legare.
Questo solido legame è andato in crisi la prima volta durante la Rivoluzione Francese scoppiata a Parigi nel 1789. Da allora la Chiesa cattolica ha speso tutte le sue energie per recuperare le posizioni che stava progressivamente perdendo, difendendo in ogni modo i valori della tradizione e dell’assolutismo contro ogni ipotesi di modernizzazione della società. Nell’800 lo scontro tra assolutismo e liberalismo è totale. Sono condannate la libertà di riunione, la libertà di associazione, la libertà di stampa, le libere elezioni, il parlamento.
Dobbiamo arrivare alla seconda metà del ‘900, al Concilio Vaticano II perché la Chiesa cattolica scenda a patti con la modernità e smetta di condannarla.
Circoscrivendo le nostre considerazioni alla donna, è quasi scontato ricordare che la condizione della donna nei paesi di tradizione cattolica è stata strettamente legata al peso della religione nella società. Sappiamo quanto la religione ha pesantemente influito nel condizionare il giudizio e la considerazione degli uomini sulle donne.

E’ importante osservare che l’ideale dei diritti umani si è sviluppato dalla proclamazione, fatta dal Cristianesimo, dell’equivalenza di tutti gli esseri umani. L’ideale di tutelare, già in questo mondo, la libertà della persona, scaturisce dalla Riforma protestante del XVI secolo e fu poi elaborata dall’Illuminismo del XVIII secolo. Ma solo nel XIX secolo questo principio cominciò ad includere le donne,  e dal XX secolo ad essere applicato nelle società occidentali.
La religione è stata un fattore socio-culturale di fondamentale importanza in tutte le civiltà. Ogni discorso su Dio è sempre stato espresso con parole legate ad un determinato contesto culturale.
In una prospettiva femminista come conciliare il concetto di un solo Dio con una umanità in cui esistono due sessi?
Nel Giudaismo, nel Cristianesimo, nell’Islamismo, la priorità assegnata all’umanità maschile viene rafforzata da dottrine e simbolismi tradizionali che descrivono Dio con metafore maschili, escludendo quindi il femminile dal concetto di divinità.
Eppure le donne hanno avuto un ruolo decisivo nelle prime comunità cristiane.
Alle origini del cristianesimo convivono  visioni differenti della funzione della donna nella società, che rispecchiano una certa mobilità sociale delle donne. Il cristianesimo asserisce la sostanziale ‘parità’ fra i sessi, almeno sul piano spirituale, ma nel contempo si dà per scontata l’infirmitas del sesso femminile, rendendo evidente il condizionamento nei confronti della mentalità del tempo. Prevarrà la corrente più conservatrice, da cui discendono i dettami volti a “tenere sotto controllo” le donne.[i]


In Italia all’inizio del Novecento è la Chiesa che cerca di frenare il processo di emancipazione delle donne. Diceva il papa Pio X (1903-1914) “La donna? Che la piasa, che la tasa, che la staga in casa”.
Più tardi troviamo una piena convergenza tra Chiesa e fascismo sul controllo della morale e delle donne che restano relegate in un ruolo subalterno.
Nel secondo dopoguerra Pio XII (1939-1958) tenta la riconquista cristiana dell’Italia mentre si avvia la secolarizzazione che avanza inesorabile, portando con sé la lenta ma inarrestabile trasformazione del ruolo della donna nella società italiana che segna tutti gli anni Settanta e Ottanta. Cambiano i costumi, cambiano le leggi, cambia il rapporto uomo-donna nella famiglia e nel lavoro[ii].

I processi storici, culturali ed economici della globalizzazione sembravano destinati a relegare le religioni in una sfera privata. Al contrario inedite forme di convivenza ‘forzata’ prodotte dai fenomeni migratori e le conseguenze di numerosi fatti di cronaca (a partire dall’11 settembre 2001) hanno prodotto un repentino mutamento paradigmatico intorno al ruolo della religione nelle società contemporanee.
Gli studiosi fanno riferimento ad una condizione che viene definita post-secolare: non più una alternativa escludente tra secolarizzazione e ritorno al sacro, ma una relazione dialettica tra forze contrastanti che producono dinamiche e manifestazioni complesse e diversificate (Alessandro Saggioro – Sergio Botta).
In pratica ogni contesto socio-culturale reagisce in forme differenti all’influsso delle religioni.

Oggi le donne europee si sentono minacciate dall’avanzata di una cultura che sta mettendo di nuovo in discussione conquiste costate secoli di battaglie.
La donna occidentale ha conquistato lo spazio pubblico e il diritto a viverlo esattamente come gli uomini.
La donna occidentale ha conquistato i diritti civili.
La donna occidentale ha conquistato la libertà di vestire come preferisce.
Il rispetto delle altre culture, come quella islamica, rischia di imporre limiti alle nostre libertà.
Gli integralismi, quando si tratta delle donne, si assomigliano tutti. E con la scusa di difendere valori come la famiglia, l’onore, il pudore, la castità, vogliono di fatto tornare a quell’epoca in cui le donne, docili e silenziose, dovevano accontentarsi di restare a casa, lasciando agli uomini l’impegno della vita pubblica.
Come scrive Michela Marzano, rischiamo di tornare all’intolleranza e all’umiliazione nel nome della tolleranza e del rispetto. “Come si può, nel nome della tolleranza, tollerare appunto l’intolleranza”?
Nei paesi europei dove l’immigrazione islamica ha dimensioni importanti, è ormai in corso una revisione delle regole del costume. Nuove direttive cominciano ad essere applicate negli uffici, nelle piscine, sui treni, per “non urtare” i sentimenti dei musulmani. Viene messa il discussione la moda delle donne a partire dalla minigonna.

In contemporanea la Chiesa cattolica con il papa si sta aprendo alle donne come mai in passato. Non si impone più alle donne di avere come referente la Madonna e le sante vergini. La Santa Sede ha appena costituito la Consulta femminile formata da 34 donne con il compito di “consigliare e arricchire l’orizzonte” della Chiesa per “offrire un punto di vista diverso e un contributo vero” (aprile 2016).
Il papa, per la prima volta nella storia, nel 2016 ha lavato i piedi anche ad una donna, nella cerimonia della lavanda dei piedi del Giovedì Santo.
E’ ancora il papa ad insistere sul concetto che  « Dio è Dio. Non è né uomo né donna, ma è al di là dei generi. È il totalmente Altro. Credo che sia importante ricordare che per la fede biblica è sempre stato chiaro che Dio non è né uomo né donna ma appunto Dio e che uomo e donna sono la sua immagine. Entrambi provengono da lui ed entrambi sono racchiusi potenzialmente in lui”.[iii]
L’attuale papa, Francesco, è ancora più chiaro quando insiste sul concetto della parità uomo donna voluta da Dio.

Il femminismo affermando l’autonomia delle donne in campo sociale, biologico, culturale, ha realizzato una rivoluzione che ha fatto crollare l’androcentrismo e ha posto una sfida al Cristianesimo tradizionale. Gli ultimi papi hanno intercettato questa esigenza cui stanno offrendo risposte importanti. Gli ultimi documenti papali sulla donna e sui rapporti tra i sessi raccontano molto bene quanto fosse “culturale” il disprezzo di San Gerolamo, Tertulliano, San Paolo e di tutti i Padri della Chiesa nei confronti della figura femminile che oggi viene riscattata e restituita alla sua dignità piena di persona.
Forse è questa la strada da seguire per coniugare il rispetto delle diverse fedi religiose con una società in rapido mutamento.
                                                                                             Anna Maria Isastia




[i] Donne nello sguardo degli antichi autori cristiani. L’uso dei testi biblici nella costruzione dei modelli femminili e la riflessione teologica dal I al VII secolo, a cura di Kari Elisabeth Borresen, Emanuela Prinzivalli
ed.
 Il pozzo di Giacobbe, 2013; Georges Duby, I peccati delle donne nel Medioevo, Laterza, 1999.   
[ii] Giancarlo Zizola, Il modello cattolico in Italia, La vita privata. Il Novecento, Laterza 1988, pp. 247-307.
[iii] Joseph Ratzinger, Dio e il mondo , 2001.

mercoledì 13 aprile 2016

Donne e scienza - Da giudicedonna.it

Articolo pubblicato sul numero  1/2016 di  giudicedonna.it 

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L’8 marzo 2016,  in concomitanza con la Giornata internazionale della Donna, e in collaborazione con il Dipartimento delle Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio parte il mese delle STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics) promosso dal Miur, con il logo “Le studentesse vogliono “contare”!”.
L’iniziativa si inquadra nella strategia di attuazione del comma 16 della legge 107/2015 e della promozione delle pari opportunità volte a contrastare anche gli stereotipi di genere.
Uno degli stereotipi esistenti dentro il sistema formativo è quello di una presunta scarsa attitudine delle studentesse verso le discipline STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics) che conduce a un divario di genere in questi ambiti sia interno al percorso di studi che nelle scelte di orientamento prima e professionali poi. Solo il 38% delle studentesse indirizza il proprio percorso formativo verso le discipline cosiddette STEM. Il dato, evidentemente ancora troppo basso, si presta a molteplici letture di carattere sociale, culturale e anche educativo/orientativo.
Alla luce delle sfide tecnologiche sempre più pressanti e della possibilità professionali e occupazionali crescenti negli ambiti produttivi ed economici legati alle nuove tecnologie, diventa necessario far acquisire alle studentesse la consapevolezza dell’irrinunciabilità del proprio pari contributo allo sviluppo sociale e culturale del Paese anche in ambiti “tradizionalmente” ed erroneamente poco attrattivi per le donne.
L’intento più generale di questa iniziativa è dunque quello di contrastare fin dall’ambito formativo gli stereotipi che vogliono le donne scarsamente predisposte verso lo studio delle STEM e meno interessate a intraprendere studi e professioni tecnologiche e digitali, rimuovendo gli ostacoli di tipo culturale, sensibilizzando docenti e studenti e valorizzando il talento degli studenti e delle studentesse insieme in tali ambiti.
Perché si è resa necessaria una tale iniziativa? Perché le donne sono così scarsamente presenti in certi contesti professionali? Perché ancora oggi si ritiene che le donne siano meno versate per determinate discipline, anche se i dati ci dicono il contrario?
Le statistiche dimostrano che a scuola ragazze e ragazzi hanno risultati analoghi in campo scientifico e spesso le studentesse prendono voti più alti degli studenti anche in matematica, fisica, scienze.
Poi però l’appartenenza di genere influenza le scelte in campo formativo e lavorativo e di conseguenza troviamo meno donne iscritte a facoltà ad alto contenuto tecnico-scientifico e meno ragazzi iscritti a facoltà umanistiche. Oggi su 100 laureati, 58 sono donne, ma se gettiamo uno sguardo ai laureati per gruppi disciplinari si evidenzia subito che le donne laureate in ingegneria sono 20 su 100, mentre salgono a 92 su 100 nelle materie che portano all’insegnamento.
Nell’ambito del dottorato di ricerca le donne sono ancora in maggioranza: 52 su 100 sono dottori di ricerca. Quando però si presentano ai concorsi di ricercatore, la prevalenza maschile comincia a delinearsi nettamente: le donne si fermano al 42% anche se hanno ottimi titoli formativi e pubblicazioni migliori. I dati europei ci dicono che la presenza femminile nel mondo scientifico è in media del 38% e l’Italia è allineata su questi dati.
Le donne fanno meno carriera degli uomini e accedono con più difficoltà ai fondi di ricerca che sono indispensabili per produrre risultati scientifici.
Due ricercatrici dell’università di Goteborg in Svezia, quindici anni fa pubblicarono sulla rivista Nature un articolo che fece scalpore: le due studiose affermarono che così come Virginia Woolf aveva bisogno di danaro e di ‘una stanza tutta per sé’ per scrivere romanzi, anche le donne ricercatrici hanno bisogno di soldi, di strutture e di una ‘cattedra tutta per sé’, per produrre risultati e avanzamento della conoscenza.
Una indagine sulla assegnazione dei fondi di ricerca documenta con facilità che, a parità di titoli, l’uomo è preferito alla donna perché considerato più competente.
I dati italiani e quelli europei non si discostano molto da quelli elaborati dalla New Jersey Institute of Technology.
In America, le donne rappresentano circa il 50% della popolazione e costituiscono il 47% della forza lavoro, ma rappresentano solo il 24% della forza lavoro STEM. Le donne sono il 53% nel campo delle scienze sociali e il 51% delle scienze biologiche e mediche. Al contrario, costituiscono solo il 13% nel campo dell'ingegneria e del 26% nel campo dell'informatica e delle scienze matematiche.
Ancora una volta, nell’affrontare questioni che attengono al ritardo femminile in tanti ambiti lavorativi, ci rendiamo conto che l’esclusione e la cancellazione della memoria partono da molto lontano e restano costanti nel tempo.
Quanti sanno o ricordano che in tempi molto lontani da noi Teano di Crotone, moglie di Pitagora assunse la guida della scuola alla morte del maestro? Questa informazione ci indica che la moglie aveva le stesse conoscenze del marito e la sua stessa cultura, ma mentre tutti sanno chi era Pitagora, chi ha mai sentito nominare Teano?
Le donne cui è stato permesso di avvicinarsi alla cultura erano mogli di o figlie di. Era una figlia Ipazia, il cui padre Teone volle farla studiare con i risultati che conosciamo. L’astronoma Caroline Herchel poté fare ricerca grazie al fratello William. I fondatori della chimica moderna sono i coniugi Lavoisier, Antoine-Laurent  e  Marie-Anne Pierrette Paulze, che divenne nel tempo la sua collaboratrice scientifica, tradusse opere dall'inglese e illustrò i suoi libri. 
Sono molte le donne che hanno potuto dimostrare le loro capacità per motivi del tutto particolari come capitò a Emily Warren Roebling, moglie di Washington Roebling capo ingegnere del ponte di Brooklyn che portò a compimento l’opera del marito quando questi rimase paralizzato in conseguenza di una embolia gassosa, a seguito delle immersioni nelle camere di scavo sottomarine. Fu lei a terminare, nel 1883, un’opera costata 15,5 milioni di dollari dell'epoca, che richiese la manodopera di 600 operai.
In genere la memoria collettiva e gli studi ricordano il nome dell’uomo e cancellano quello della donna, relegata al massimo nel ruolo di collaboratrice o esecutrice.
Un altro dato non secondario è legato al fatto che, in passato, le donne colte che scrivevano e pubblicavano lo facevano in maniera anonima oppure pubblicavano con il nome del marito o ancora con uno pseudonimo maschile.
Sophie Germain, nell’Ottocento si firmava Monsieur Le Blanc per poter corrispondere col matematico Lagrange e sottoporgli i suoi lavori. Paradossale è la vicenda di Trotula de Ruggiero, medica medievale della rinomata Scuola delle Mulieres salernitanae: nonostante firmasse le sue opere col proprio nome, nelle trascrizioni successive questo fu cambiato nel maschile Trottus, probabilmente perché era impensabile che una donna avesse delle competenze in campo medico.
A metà Ottocento a Parigi Cristina Trivulzio traduce in francese l’intera opera di Giovan Battista Vico e pubblica il trattato di teologia Essai sur la formation du dogme catholique. Entrambi i lavori  vengono pubblicati anonimi, ma tutti ne conoscono l’autrice e proprio per questo sono accolti da incredulità e ironie diffuse. Le attività della principessa di Belgiojoso creano disagio e incomprensione, sia che voglia imporre la sua presenza di donna che non rispetta le convenzioni sociali del suo tempo, sia che manifesti un suo autonomo modo di ragionare su temi per tradizione monopolio della cultura maschile, come la speculazione filosofica. Si nega che una donna possa avere un pensiero “forte”, dato che il pensiero sarebbe per sua essenza “virile” e dunque non dovrebbe poter diventare “le caprice d’une femme à la mode”.
Considerazioni molto simili si possono fare per l’inglese Ada Lovelace figlia di Lord Byron e una delle donne più famose in Inghilterra e in Europa grazie alla sua passione e al suo indiscusso talento per la matematica cui era stata iniziata dalla madre. Nei suoi scritti Ada sottolineava spesso la frustrazione per il disprezzo e la mancanza di considerazione con cui si trovava a fare i conti ogni giorno. Ad appena diciassette anni conobbe Charles Babbage, che stava lavorando alla sua macchina analitica, un vero computer ante litteram. Collaborando con il padre dell’informatica, questa giovane donna elaborò un algoritmo che viene oggi riconosciuto come il primo programma informatico della storia. Inoltre fu proprio dal lavoro di Ada, che Alan Turing prese l’ispirazione necessaria per costruire il primo moderno computer. Oggi Ada Lovelace è considerata il simbolo di tutte le donne che dedicano la loro vita alla scienza e alla ricerca, ma a lungo il suo contributo venne deliberatamente ignorato e sottovalutato. Solo nel 1979 il Ministero della Difesa statunitense onorò la sua memoria e il suo lavoro chiamando “ Ada” un linguaggio di programmazione.
Ho fatto solo pochi esempi, a titolo esemplificativo, ma i casi di studio sono tanti[1] e spiegano, forse, perché, ancora oggi, lo stereotipo fa aggio su una realtà che è stata a lungo negata o sottaciuta.

Anna Maria Isastia

[1] Sara Sesti, Liliana Moro, Scienziate nel tempo : 70 biografie, Milano LUD, 2010.

domenica 27 marzo 2016

Le donne nella Grande Guerra

Le donne nella Grande Guerra: Sfruttate, malpagate, subordinate ai mariti e ai padri. Sono le donne italiane nei primi anni del XX secolo, alla vigilia di un evento che sta per cambiare tutto.

La trasmissione di Rai Storia.

lunedì 7 marzo 2016

La storia dell'8 marzo


L’invenzione delle tradizioni è una questione affascinante per gli storici. Perché si affermano ‘tradizioni inventate’ reinterpretate di continuo e note a tutti?
In Italia il discorso pubblico sulle origini dell’8 marzo si lega ad una presunta commemorazione di operaie morte in un incendio non meglio precisato (Chicago, New York, Boston?).
I fatti storici sono molto diversi e ci riportano alla seconda Conferenza internazionale delle donne socialiste a Copenhagen nel 1910, quando Clara Zetkin propone di stabilire una data per una manifestazione dedicata alla questione femminile, compresa la rivendicazione del voto.
Il primo 8 marzo è celebrato in Germania nel 1914. Sul manifesto della manifestazione si legge: ‘Avanti con il diritto di voto alle donne!’ Manifestazioni analoghe si organizzano in Francia, Russia, Svizzera, Olanda.
In Italia la prima celebrazione dell’8 marzo la troviamo nel 1921 subito dopo la fondazione del Partito comunista che, in aperta polemica con i socialisti, esalta le rivendicazioni femminili.
Dobbiamo aspettare il 1945 perché in Italia si torni a parlare di 8 marzo Giornata internazionale delle donne. Lo fanno le donne dell’Unione Donne Italiane (UDI) che in quel momento storico raccolgono donne cattoliche e laiche, socialiste, comuniste, repubblicane.
Si festeggia nelle fabbriche, negli uffici, nelle scuole con riunioni, comizi, feste popolari.
A Londra in quella stessa data sono riunite donne di venti nazioni che approvano una ‘Carta della donna’ da far pervenire alla neonata Organizzazione delle Nazioni Unite.
Per la prima volta nella storia d’Italia, l’8 marzo del 1947 viene celebrato in Parlamento dove siedono le 21 donne elette alla Costituente. L’8 marzo è considerata una giornata di lotta, ma anche di festa, un momento di auto gratificazione. Sembra sia stata Teresa Mattei, eletta alla Costituente per il Pci, a legare alla festa la mimosa, fiore di stagione economico e facile da trovare.
La data serve anche a difendere il diritto delle donne al lavoro e al riconoscimento del ruolo di capofamiglia per quante erano fonte dell’unico reddito familiare.
Se per le donne del partito comunista degli anni venti, l’8 marzo era incardinato nelle politiche dell’Internazionale socialista, nell’Italia degli anni cinquanta rivendicare quell’eredità è scomodo e controproducente. Nel mondo diviso in due dalla cortina di ferro, è molto meglio legare l’evento ad un episodio, verosimile, della storia del movimento operaio americano: le operaie arse nell’incendio di una fabbrica.
Per gli stessi motivi, in Francia la data simbolo viene collegata ad uno sciopero del 1857.
Nel corso dei decenni cambia l’approccio alla Giornata internazionale delle donne, come racconta con dovizia di particolari Alessandra Gissi, in un saggio ben documentato, pubblicato nel 2010. Cambiano anche le parole d’ordine e lo spirito con il quale la si vive.
Oggi mi sembra molto interessante aver spostato l’attenzione sulla qualità della preparazione delle giovani. L’8 marzo 2016,  in concomitanza con la Giornata internazionale delle donne, e in collaborazione con il Dipartimento delle Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio parte il mese delle STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics) promosso dal Miur, con il logo “Le studentesse vogliono “contare”!”.
E’ un impegno forte contro uno degli stereotipi esistenti dentro il sistema formativo: quello di una presunta scarsa attitudine delle studentesse verso le discipline STEM che conduce a un divario di genere in questi ambiti sia interno al percorso di studi che nelle scelte di orientamento prima e professionali poi.
L’8 marzo, nato oltre cento anni, fa può ancora dire qualcosa di nuovo.