PROGRAMMA:
Saluti iniziali della Presidente Nazionale Soroptimist
International d’Italia, Mariolina Coppola
Presentazione e introduzione – Alessandra Fissore, Presidente SI Club di
Torino, avvocata;
Prima della Convenzione – Anna Maria Isastia, professoressa di Storia Contemporanea, Sapienza Università di Roma, Past Presidente Nazionale Soroptimist International d’ Italia;
Chi ha paura della Convenzione di Istanbul? – Elsa Fornero, firmataria per l’Italia della Convenzione di Istanbul, Professore d’onore Università degli Studi di Torino, ex Ministro del Lavoro;
I contenuti della Convenzione di Istanbul – Eleonora Romani, SI Club Lucca, avvocata;
Riflessi della violenza di genere: la violenza assistita. La tutela dei bambini nella Convenzione di Istanbul – Alessandra Querci, SI Club Livorno, avvocata;
In fuga dalla violenza: misure di protezione e sostegno – Ausilia Faraci, SI Club Gela, avvocata;
Le raccomandazioni del GREVIO e lo stato di applicazione della Convenzione di Istanbul in Italia – Michela Labriola, SI Club Bari, avvocata;
Conclusioni e chiusura lavori a cura della Presidente Nazionale Soroptimist International d’Italia, Mariolina Coppola
Anna Maria Isastia
Prima
della Convenzione di Istanbul. Brevi note
Oggi si fatica a ricordare come era l’Italia degli anni Settanta in cui erano ancora in vigore le norme del Codice Rocco del 1930 che consideravano la violenza sessuale un reato contro la morale pubblica e il buon costume e non contro la persona e sembra incredibile che ci fossero parlamentari che per decenni hanno difeso questi articoli del Codice Rocco.
“Le
donne hanno dovuto lottare persino per vedersi riconosciuta la qualità di vittima di un reato” affermava Simonetta
Matone. In passato infatti la donna non esisteva ed il reato di maltrattamenti
veniva punito, perché i reati di un marito troppo violento potevano turbare
l’ordine costituito. Oggetto di tutela era la famiglia e non la donna. I reati
contro la famiglia, erano i reati contro le istituzioni, perché attentavano
alla regolarità dei rapporti familiari. In Italia solo dopo l’introduzione del
divorzio (1970) e la riforma del diritto di famiglia (1975), è cambiata la
giurisprudenza ed ecco apparire finalmente ‘la donna’, “questa entità misteriosa
ed astratta negli anni ’30 e ’40, strumento per la realizzazione di un fine
negli anni ’50”[1].
In Italia si cominciò a discutere di questo
argomento solo nel 1977 all’interno del movimento delle donne che ha avuto il
merito di portare alla ribalta per la prima volta questo problema.
L’attenzione alla violenza domestica va infatti
inserita all’interno della lunga riflessione sulla violenza sessuale sulla
quale il femminismo italiano degli anni Settanta era profondamente diviso. Una
parte del movimento si era mobilitato per avere una legge il cui iter fu il più
lungo e travagliato della storia dell’Italia repubblicana. Un’altra parte dei
gruppi femministi si era invece opposto risolutamente a qualunque tipo di
legge. Mentre a Roma un comitato di donne si era fatto promotore di una
proposta di legge di iniziativa popolare contro la violenza sessuale (che fu
presentata ad aprile 1979), da Milano era emersa una posizione intransigente
perché, si diceva, nessuna legge poteva rappresentare le donne e la loro sofferenza
in una società dove il sesso femminile non aveva diritto di esistenza.
Ricordiamoci che nel 1978 era stato girato il
documentario “Un processo per stupro” trasmesso dalla Rai in tarda serata nel
1979 che ebbe un incredibile numero di ascolti. Veniva documentato come la
ragazza, violentata da un gruppo di stupratori, fosse stata pesantemente offesa
dagli avvocati della difesa, anche se poi gli stupratori erano stati
condannati, sia pure a pene ridicole, ma soprattutto bisogna ricordare che i
colpevoli erano stati condannati per delitto contro la moralità pubblica e non per
la violenza ad una giovane donna.
La reazione dell’opinione pubblica fu forte e
gli avvocati della difesa chiesero il diritto all’oblio. Da allora questo
prezioso documentario girato da un gruppo di registe, non è stato mai più
trasmesso dalla Rai.
Ricordiamo
che in quegli stessi anni, a livello internazionale, dal 1979 abbiamo la Convention
on the Elimination of All Forms of Discrimination against Women (CEDAW),
adottata nel 1979 e in vigore dal 1981. E’ la prima grande conquista sul fronte
della eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne, ratificata
da quasi tutti gli Stati membri (gli Stati Uniti sono l’unica nazione
sviluppata che non ha ratificato il Trattato), anche se ci sono ancora molti
ostacoli ad una applicazione completa dei diritti sanciti dalla Convenzione.
A seguito della forte mobilitazione femminile,
i partiti politici presentano progetti di legge che verranno faticosamente unificati
in un unico ddl nel 1982. L’iter di questa legge è stato uno dei più lunghi e
travagliati perché i parlamentari - dopo faticosi accordi raggiunti in
Commissione Giustizia,- rimettevano tutto in discussione ogni volta che il ddl
arrivava in aula. Terminata la legislatura si ricominciava nella legislatura
successiva.
Il nodo principale sul quale si
bloccava in aula ogni accordo votato in Commissione era quello di voler
considerare la violenza in famiglia come una situazione extra legge di cui la
società non si doveva fare carico. Era una visione dell'unità familiare
punitiva nei confronti delle donne.
Si diceva che, a salvaguardia
della unità della famiglia, lo Stato deve ritirarsi e lasciare alla vittima,
alla donna che subisce all'interno delle pareti domestiche la violenta
manifestazione di una sopraffazione quotidiana, l'onere di scegliere se
rischiare di interrompere questo sia pur doloroso rapporto coniugale o invece
sopportarlo per amore o per bisogno. Si sente l’eco della celebre frase di
Carlo Arturo Jemolo utilizzata in senso ben diverso perché il giurista
cattolico-liberale affermando che la famiglia è una “isola che il mare del
diritto deve solo lambire” intendeva rivendicarne l’autonomia rispetto alle
ingerenze dello Stato totalitario fascista.
Gli Atti parlamentari e gli
articoli di giornale di quegli anni raccontano bene l’arretratezza culturale
della classe politica italiana.
Si faticava a far passare
qualunque significativo cambiamento. Elena Marinucci persona con una solida
preparazione giuridica, che ha presieduto la commissione giustizia del Senato
denunciava il fatto che si presentavano emendamenti volti a ridefinire in buona sostanza lo
stupro un delitto contro la pubblica morale e non contro la persona... Insomma non si riusciva a scalfire la
cultura dominante.
“Mi
stupisce perché tutto il senso del lungo dibattito sulla violenza 'sessuale'
era ed è quello di ribaltare la cultura dominante, e trasferire senza
incertezze la riprovazione sociale sulla testa dell’autore di questo infame e
antico delitto contro le donne”.
Riassumendo
il percorso della legge, Elena Marinucci nel 1984 ricordava che la battaglia
parlamentare è stata avviata oltre 4 anni fa (10 settembre 1980). Dopo varie
opposizioni e contestazioni è stato introdotto il principio che il reato
sessuale riguarda i diritti della persona e non la morale.
Di
qui l'introduzione della procedibilità d'ufficio e la possibilità per la
vittima di costituirsi parte civile. “Nella passata legislatura erano
inizialmente favorevoli al progetto di legge il PSI, il Movimento popolare, il
PRI ed il PSDI, e contrari la DC, il PCI, gli indipendenti di sinistra e il
PLI. Poi il PCI ha cambiato posizione a favore e, infine, la Camera, nella
corrente legislatura, ha votato la legge con l'opposizione solo del movimento
sociale”[2].
Quattro
anni dopo ad aprile 1988 denunciava che: «Per tre volte in tre
legislature si è ripetuta la stessa sceneggiata. In commissione o in aula le
posizioni tornano a diversificarsi e la legge si arena. Va denunciato il grave
pericolo che il ritardo della legge produca effetti criminosi suggerendo l'idea
inesatta che lo stupro non sia punito dalla legge».
Anche la Sinistra indipendente
scese in campo contro il blocco dell'iter parlamentare. «Gli obiettivi della
campagna DC contro la legge - ha dichiarato Mariella Gramaglia, direttrice di ‘Noi
Donne’ e deputata della Sinistra indipendente - sono due e sempre gli stessi.
Il primo è quello di voler considerare la violenza in famiglia come una
situazione extra legge di cui la società non si deve fare carico. È una visione
dell'unità familiare punitiva nei confronti delle donne.
«Il secondo obiettivo - continua
la Gramaglia - è la sessualità giovanile. Anche noi riteniamo che la violenza
su una persona giovane è molto grave. Non siamo però disposti a fare di tutta
l'erba un fascio, perché altrimenti si corre il rischio di non riconoscere il
diritto alla sessualità dei quindicenni».
Nel 1986 intanto
il Parlamento europeo approva una ‘Risoluzione’ sulla violenza contro le donne
e invita gli Stati membri a definire una legislazione che riconosca:
l’abolizione della differenza tra stupro e violenza, la qualificazione di
questi delitti come ‘delitti contro la persona’, il riconoscimento giuridico
dello stupro all’interno del matrimonio, la procedibilità d’ufficio e la
costituzione di parte delle associazioni femminili nel processo.
Nel corso degli anni la mobilitazione a favore
della legge si era intensificata. Nel dicembre 1991 le magistrate italiane
fecero una ricerca sulla violenza familiare quale causa ricorrente delle
separazioni personali tra coniugi[3].
Nella conferenza mondiale sui diritti umani
svoltasi a Vienna nel giugno 1993, si era riconosciuta l’importanza della
eliminazione della violenza contro le donne nella vita pubblica e privata,
insieme alla necessità di porre fine ad ogni forma di molestia sessuale,
sfruttamento e tratta di donne e di rimuovere il pregiudizio di genere
nell’amministrazione della giustizia.
Il 20 dicembre 1993 l’Assemblea generale delle
Nazioni Unite approvò all’unanimità la Dichiarazione sull’eliminazione della
violenza contro le donne, affermando che essa costituisce una violazione dei
diritti umani e delle libertà fondamentali in qualunque modo si espliciti:
fisica, sessuale, psicologica.
A fronte di tanti impegni a livello
internazionale, la materia in esame appariva comunque sfuggente, perché parlare
di violenza domestica: “significa aprire una breccia in un terreno inesplorato,
da sempre considerato affare privato, questione di famiglia, che il diritto non
deve regolare, ma soltanto occasionalmente lambire. Effetto inevitabile di tale
posizione astensionistica è stato quello di una minimizzazione del fenomeno,
estremamente diffusa nella coscienza sociale e spesso radicata anche nel
pensiero della vittima”[4]. Lo
affermava Gabriella Luccioli, presidente Admi nella presentazione dei lavori
del convegno del 1994.
A Roma nel 1994 fu organizzata una conferenza
internazionale delle magistrate riunite nell’ADMI e nell’AIWJ per dibattere e
cercare soluzioni al dramma della violenza domestica che riveste dimensioni
mondiali, perché riguarda le donne di ogni paese, senza distinzioni di razza e
di gruppo sociale di appartenenza ed è tuttavia un fenomeno in gran parte
sommerso.
Alla conferenza di Roma[5]
parteciparono magistrate di circa quaranta paesi, dall’Albania allo Zimbabwe,
legate da una comune appartenenza e interessate a promuovere iniziative comuni.
Far emergere il problema della violenza
domestica dal silenzio, affrontarlo quale espressione di un preciso contesto
sociale, e non soltanto come fatto individuale di deviazione, significava
mettere in discussione il complesso dei rapporti interpersonali all’interno
della famiglia, esaminandolo nelle sue implicazioni giuridiche, psicologiche,
sociologiche, criminologiche.
Obiettivo della Conferenza era quello di
internazionalizzare la questione, ponendo la violenza domestica quale problema
generale, perché fosse affrontata nei vari ordinamenti con strumenti adeguati.
La Conferenza di Roma del 1994 della
International Association Women Judges (IAWJ) mise in evidenza la lenta
emersione del fenomeno della violenza domestica nei confronti delle donne, un
fenomeno per troppo tempo rimosso e relegato in un’area razionalmente
accettabile, in quanto, secondo schemi culturali ampiamente radicati, si
tendeva ad attribuire la responsabilità dell’abuso coniugale a disordini della
personalità presenti non solo nell’autore, ma anche nella vittima della
violenza.
L’anno dopo a Pechino si svolse la IV
Conferenza mondiale sulle donne che dedicò largo spazio al contrasto alla
violenza contro le donne dandosi una serie di obiettivi strategici.
In Italia nel frattempo il panorama politico
era completamente cambiato. Nella legislatura XI che durò solo due anni
(1992-94) nessuno si preoccupò della violenza sulle donne mentre lo scandalo di
tangentopoli travolgeva i partiti politici della prima repubblica.
L’argomento tornò all’attenzione del
parlamento completamente rinnovato nel 1994 (XII legislatura). Furono
presentati 15 progetti di iniziativa parlamentare che si trasformarono in un
unico testo unificato grazie all’impegno di tutte le parlamentari. Finalmente i
partiti politici sembravano voler raggiungere un reale accordo forse proprio
perché le nuove forze politiche presenti in parlamento non rispondevano più
alla vecchia cultura e alle vecchie logiche.
Nel 1996 finalmente il parlamento votò
le norme contro la violenza sessuale. La
legge n. 66 del 1996 ha profondamente innovato l’originaria disciplina
in tema di delitti contro la libertà
sessuale, ricompresi dal Codice Rocco del 1930
tra i reati contro la moralità
pubblica e il buon costume, inserendoli
invece tra i delitti contro
la libertà personale.
Con la
nuova configurazione il legislatore ha
affermato che il bene leso non è la moralità sessuale, il cui titolare è la
collettività, ma la singola persona.
La libertà
sessuale costituisce quindi un
corollario insopprimibile di quella individuale[6].
Alla legge del 1996 fece seguito la legge 154 del 2001 che introdusse
gli ordini di protezione sulla base di
una proposta avanzata dalle magistrate
già nel 1994[7]
Le pene per
il reato di violenza sessuale individuale e di gruppo furono inasprite dal
successivo decreto legge del 23 febbraio 2009 convertito in legge due mesi dopo,
che prevedeva misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e contro la
violenza sessuale e introduceva il reato di stalking.
Sempre nel
2009 il Parlamento europeo votava una Risoluzione ribadendo ancora una volta la
necessità di eliminare la violenza contro le donne[8].
Attraverso tutti questi passaggi si arriva alla ‘Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica’, firmata a Istanbul l’11 maggio 2011 e poi al Codice Rosso del 2019 di cui parleranno le altre relatrici
[1] Simonetta Matone, La
posizione della vittima prima e durante in processo, in La violenza domestica: un fenomeno sommerso,
Angeli, Milano, 1995, p. 102.
[2] Elena
Marinucci, Così va modificata la legge
contro la violenza sessuale, ‘Avanti!’ 18 dicembre 1984 in Elena Marinucci,
Per un mondo più giusto. Scritti su questione femminile e socialismo
(1978-2015), a cura di A.M. Isastia, 2019, pp. 267-268.
[3] La relazione che illustra i risultati
della ricerca è stata pubblicata nel rapporto annuale all’Onu della Commissione
per le pari opportunità presso la presidenza del consiglio dei ministri.
[4] Gabriella Luccioli, Presentazione, La violenza
domestica: un fenomeno sommerso, Angeli, Milano, 1995, p. 13.
[5] Il primo congresso dell’IAWJ si tenne a
San Diego in Usa nel 1991. Il convegno di Roma fu il secondo.
[6]
Commissione nazionale per la parità e le pari opportunità tra uomo e donna, Violenza
sessuale. 20 anni per una legge, a cura di Tina Lagostena Bassi, Agata Alma
Cappiello e Giacomo Rech, Dipartimento per l’informazione e l’editoria 1998.
[7] Se
ne dà atto nella relazione al disegno di legge 2675 del 1998.
[8] Risoluzione del Parlamento europeo del 26 novembre 2009 sull'eliminazione
della violenza contro le donne
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