Il 17 luglio di cento anni fa, nel
1919, il Parlamento italiano votava una legge di fondamentale importanza per
tutte le donne cui veniva finalmente riconosciuta piena capacità giuridica. Il
Gabinetto di unità nazionale aveva cominciato ad affrontare la questione in
piena guerra, travolto dalla evidenza dei fatti. Le donne dimostravano, contro
ogni residuo stereotipo, che erano perfettamente in grado di sostituire gli
uomini al fronte in tutti i mestieri e le attività. Migliaia di donne erano
uscite dalle case per entrare nelle fabbriche e nei laboratori, negli uffici e
negli ospedali. L’autorizzazione maritale che aveva fino allora impedito ogni
possibile emancipazione femminile era stata di fatto sospesa e poi sarà
abolita, ma si doveva fare di più.
Nella nuova legge approvata a
larghissima maggioranza “Disposizioni sulla capacità giuridica della donna”,
all’art. 7 si leggeva:
“le donne sono ammesse, a pari
titolo degli uomini, ad esercitare tutte le professioni ed a coprire tutti gli
impieghi pubblici, esclusi soltanto,[…]quelli che implicano poteri pubblici
giurisdizionali o l’esercizio di diritti e di potestà politiche, o che
attengano alla difesa militare dello Stato”. La legge era stata redatta dai più
eminenti giuristi del tempo: Mortara, Bensa, Scialoja, Filomusi-Guelfi, Del
Giudice.
Molte laureate che avevano
lavorato negli studi di fratelli, mariti, padri, poterono finalmente diventare
avvocate. Le libere professioni si aprivano alle donne. La stessa cosa sarebbe
dovuta accadere per il pubblico impiego, ma il regolamento emanato il 4 gennaio
1920, le escluse da tutte le carriere direttive dello Stato.
Si faceva distinzione tra “piena
eguaglianza di diritto” e “inattitudine concreta” della donna a tutta una serie
di impieghi. In pratica la burocrazia costituita da soli maschi alzava le
barricate contro la remota possibilità di dover un giorno trovarsi una donna
dirigente.
Resta la fondamentale importanza
di una legge che alla fine della prima guerra mondiale ‘emancipò’ finalmente le
donne italiane.
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